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TESTI CRITICI

Radicondoli, Luca Gilli. Una lunga confidenza

Se la fotografia è processuale.
Elogio della lentezza

Adriana Polveroni

Docente, giornalista, saggista e critica d'arte. Direttrice artistica di Roma Arte in Nuvola

La fotografia è un attimo, un istante fissato sulla pellicola o nel cloud. È il frame di una storia, l’ “attimo fuggente” che il clic cattura e fissa. La fotografia è un feticcio temporale, perché quel tempo, qualsiasi tempo – che per sua natura è mobile, fluisce, scorre – lì, invece, si ferma. È ipostatizzato, feticizzato, dunque. A volte anche incorniciato, appeso a un muro. Guardato e osservato da altri sguardi che ignorano cosa ci fosse prima e cosa, forse, c’è stato dopo quell’istante, che ora appare sotto forma di oggetto, persona, figure, paesaggio o semplice luce.

«La fotografia nasce sempre da una rottura, perché è sempre e solo un frammento di qualcosa di molto più ampio», afferma Luca Gilli. Ma lui, Luca Gilli, quasi rovescia ciò che ha appena affermato e quello che io ho scritto a proposito della istantanea, non a caso sinonimo spesso usato per indicare la fotografia. Perché per lui quell’istante quasi non esiste, almeno non esiste concettualmente, e neanche fisicamente. Perché Luca Gilli ha tutt’altra idea della fotografia. Ed è questo, che questo volume e soprattutto le immagini che vi si trovano, dedicate a un piccolo paese toscano, Radicondoli, intendono raccontare.

«La mia è una foto lenta, è il risultato di una relazione fisica fra me e il luogo dove mi trovo». Analizziamo questa prima affermazione, già così gravida di significati e così evocativa, dove la fotografia si connota per una lentezza strutturale. Ma che significa? Non solo il “tempo lungo” che Gilli impiega per fare una foto, guardarla e riguardarla, lasciarla depositare nella memoria anche per alcuni mesi, finché si attiva quello che lui definisce un “transfert della memoria” che poi gli fa decidere se accettarla o meno. Tutto questo ha un indubbio valore, ma rientra in una pratica in qualche modo misurabile, dove il coinvolgimento è – come dire?- di ordine professionale. La lentezza cui allude, presuppone dell’altro: «Per me si tratta di una capacità di ascolto, di un ascolto sinestetico, che implica altri sensi e che mi coinvolge fisicamente,

creando come un accordo trasversale tra questi che va oltre il solo sguardo».

L’iter processuale di Gilli, quindi, è qualcosa come un “essere dentro la fotografia”, non solo dentro il luogo che questa immortala ma, per dirla con Heidegger, prendendo spregiudicatamente in prestito il linguaggio e il pensiero di questo filosofo, si tratta di un “essere-nel-mondo” e di un “essere-per-la-fotografia”.

«Io fotografo con tutto il corpo. – afferma Gilli – È stato dimostrato che quando si entra in un ambiente, un’architettura o un paesaggio, questi possono cambiare la postura del corpo. Si assorbe, ci si impregna del luogo», aggiunge. E lui, in quel luogo dove entra con l’interezza della sua persona ma senza nessuna velleità muscolare, si sofferma sui dettagli apparentemente più insignificanti.

Forse è proprio nelle pieghe di ciò che appare banale, di quello che il sinologo francese François Jullien ha definito “insapore”, il cui merito è farci accedere al “fondo indifferente delle cose” – e così poi con “l’incolore” e “l’inodore”, concetti del pensiero cinese che definiscono l’esperienza estetica – che si cela il significato delle cose stesse. Che non si manifestano nell’opposizione dei colori o dei sapori – di nuovo il riferimento è al pensiero sapienziale cinese – ma, piuttosto, in una pienezza data proprio dal contenimento di quegli opposti.

Ecco, nel caso di Gilli questa pienezza, questa sorta di pacificazione degli opposti, si manifesta in quella sospensione, in quella presunta assenza di gravità che è protagonista delle sue immagini.

Il paesaggio, gli edifici, i dolci rilievi collinari, gli alberi, le porte – «amo molto le porte», ci dice – e poi gli interni dietro queste porte, le stanze, gli oggetti, le tracce rimaste di una vita passata, hanno tutte questa cifra, questo segno indelebile, questo tratto dell’anima mi verrebbe da dire, che è la sospensione.

Certo, la mancanza di presenza umana lavora in questa direzione. Il vuoto, nella vertiginosa instabilità che apre, va oltre addirittura la sospensione. Ma il vuoto non necessariamente significa assenza, mancanza di qualcosa. Non so se Luca Gilli conosca il pensiero orientale e non so dire neanche come mai tale pensiero mi stia accompagnando così insistentemente nella scrittura di questo testo. Ma nel vuoto, in questa idea che sorprendentemente unisce le filosofie orientali e la scienza occidentale – lo Zen, il Buddismo e lo Shintoismo giapponese da un lato, la teoria della relatività di Einstein, la fisica quantistica e la fisica di Fritjof Capra (Il Tao della fisica) dall’altro – risiede la condizione di possibilità di tutte le cose.

Il vuoto è piuttosto un pieno dinamico, germinale, è il collante della vita stessa, anche di quella vita che nelle foto di Gilli sembra mancare. Il vuoto, la sospensione consentono di istituire relazioni concettuali, il “campo di tensione” di cui parla per esempio l’artista messicano Damian Ortega. Il vuoto attiva una grammatica dello sguardo e quindi una sintassi dell’immagine e dell’immaginazione. Ed è qui che, con le sue foto, converge Luca Gilli. Le sue immagini, con cui lui cerca «di risvegliare quella che è la potenzialità poetica delle cose piccole, che sia un paesaggio o un interno», proprio quelle piccole, cose sospese ci muovono per allacciare altre connessioni, ci spingono ad immaginare qualcosa oltre quello che vediamo, superando l’iniziale smarrimento che quei luoghi vuoti ci hanno prodotto.

Sono rimasta molto colpita dagli esterni così carichi di silenzio, un silenzio carico, a sua volta, di dignità. Sì, dignità. Parola che mi è ricorsa spesso vedendo, una dopo l’altra, le fotografie di Luca Gilli, che a prima vista potremmo definire malinconiche, dove però questa parola – malinconia – non risolve, non racconta il suo lavoro, specie quando la natura è più protagonista la quale, a sua volta, non è docile, addomesticata, come è spesso nella nostra iconografia, né matrigna, come invece appare nella cultura visiva nordica. Nella sua nudità, nel suo essere sospeso tra un passato e un nulla, il paesaggio raccontato da Gilli mi è sembrato autorevole, esprime grande dignità, dichiara se stesso, senza infingimenti. E poi gli interni, altrettanto dignitosi nel loro presentarsi per come sono, e poi brani di storie che non vediamo, ma che possiamo immaginare. Perché se non c’è mai la presenza umana, c’è però sempre, probabilmente, una storia dietro. «Le tracce, i segni umani nel paesaggio raccontano qualcosa. E questa, secondo me, è una novità rispetto al mio lavoro precedente, mi sono dovuto rapportare a una realtà di vissuto molto forte, il convento di clausura, ormai vuoto. Per me è stata la prima volta che mi sono confrontato con qualcosa del genere».

Luca Gilli non nasce fotografo. Per molti anni ha realizzato progetti di ricerca per l’Università di Parma in campo zoologico ed ecologico. «Ho cominciato a fotografare come supporto alla ricerca sul campo, facevo molta ricerca in natura. Dopodiché la fotografia ha prevalso e, dopo un periodo iniziale in cui ho lavorato per riviste di settore, mi sono appassionato ai grandi fotografi americani, come Ansel Adams, Edward Weston, Paul Caponigro, e ho abbandonato la ricerca. Per me la natura è molto importante, mi sono sempre rifugiato in essa, e la natura mi ha portato alla fotografia», racconta.

Gilli ha poi voluto misurarsi con qualcosa di molto diverso da quello che aveva fatto fino allora, e diverso dalla natura stessa: «Ho sentito che dovevo confrontarmi con la mia quotidianità reale, con gli aspetti della vita e del mondo che incontravo uscito di casa. Per esempio i cantieri, dove la bellezza primaria non c’è e che sono una metafora della vita di oggi, fatta di confusione, di artificialità e di rumore. In questi contesti sei tu che devi cercare la bellezza, che devi ascoltarla, devi sentirla interagendo con quello che hai davanti. E questa capacità d’ascolto dell’alterità l’ho traslata dal mondo naturale».

Indubbiamente Luca Gilli ha sviluppato un suo originale e particolare “dialogo e ridialogo” con la fotografia, come definisce lui il suo rapporto con l’immagine. Mi riferisco alla scelta di sovraesporre il bianco, che rende magico qualsiasi ambiente che ritrae, immerso in un’abbagliante sospensione cromatica da cui però emerge con prepotenza un colore, se per caso si trova lì: i rossi saturi, i gialli densi, i verdi che si accendono di smeraldo, lampi che squarciano quell’immagine irresistibilmente diafana.

Ma, trattandosi di fotografia di paesaggio e trovandoci in Emilia – Luca Gilli vive a Cavriago in provincia di Reggio Emilia – il pensiero non può non andare a Luigi Ghirri, da cui, a mio parere, Gilli ha imparato anzitutto a fare di un’immagine un’epifania. Che per Ghirri era spesso insensata ma, proprio in virtù di questa insensatezza, particolarmente attraente, era desolata e spesso ironica insieme. Era soprattutto uno sguardo nuovo, diverso sul mondo, grande e piccolo, banale, in profonda trasformazione o paradossale che fosse, ma comunque originario. Soprattutto Ghirri è stato il primo a capire come si stava trasformando la nostra relazione con il paesaggio. Ma l’epifania di Gilli è diversa. È toccante perché sospesa, è una visione estatica, né paradossale tanto meno ironica, è un istante che ha il sapore dell’eternità.

Non dimentichiamoci però il tempo lento, lungo di cui abbiamo detto all’inizio che, a questo punto, richiede di essere guardato meglio.

Penso che il lavoro di Luca Gilli sia una fotografia processuale, fatta di aggiunte progressive, che non sono necessariamente altre immagini, ma ripensamenti, ritorni, nuovi sguardi, tracce del dialogo che lui comincia a intessere con una certa immagine. Da qui prende corpo quel tempo lungo, dilatato anche attraverso gli elementi che si aggiungono, che si stratificano, disegnando a poco a poco le diverse evocazioni che una fotografia sollecita insieme a quello che sarà il suo luogo ultimo: l’immagine definitiva. Ecco che dalla campagna, dalle colline viste in lontananza – un paesaggio – notiamo insieme all’artista – non decodificabile come toscano, forse anche per via della luce piatta, che non illumina e quindi non fa risaltare rilievi e andamenti orografici – il racconto si snoda attraverso gli edifici, le diverse costruzioni che via via incontriamo: nobili come i due castelli, un tempo vanto di Radicondoli, poveri come le tante case ritratte, o calati in un silenzio che pare, e forse è, eterno, come nel caso del cimitero. Tutti luoghi spogli, privi di presenza umana.

Ma poi ci entriamo dentro questi luoghi, entriamo nelle case, nelle stanze di un palazzo nobiliare di cui intuiamo il passato importante, con salotti che raccontano di conversazioni, famiglie riunite, spensieratezza, entriamo dentro il convento, nella desolazione delle sue celle e nei suoi spogli ambienti comuni. Allora queste immagini ci appaiono più strane, come un riverbero fantasmatico, come se quei luoghi fossero stati abbandonati un secondo prima dell’arrivo di Gilli, anche se sappiamo che non è vero perché i castelli e il convento sono abbandonati da anni, ma la sensazione è che ci fosse qualcuno che li abitava, e poi che tutto fosse sparito, dissolto.

Complice di questa epifania fantasmatica, di una storia che ha sempre un’altra storia alle spalle, è la luce, piatta, diffusa, dell’alba, «non fotografo quando c’è il sole. La sua assenza mi mette in una situazione più metafisica», ci spiega lui. È una luce apparentemente incolore, per riprendere il pensiero di François Jullien. Ma, direi di più, in quella epifania fantasmatica, agisce soprattutto la complicità dello sguardo di Luca Gilli che, a sua volta, rende complici noi che siamo davanti a quelle immagini perché ci sollecita a continuarle, a completarle. Perché lui, Gilli, ha a cuore una «narrazione poetica». Perché «ogni foto è come un verso di poesia. E la fotografia è più affine alla poesia che al racconto».

Ecco, stavolta Radicondoli è il protagonista di una poesia lunga tanto quanto il libro che avete tra le mani.

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